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Essere Zen, Ezra Bayda.

Estratti e recensione libro.

Il brano estratto dal libro “Essere Zen” di Ezra Bayda affronta il condizionamento culturale e le percezioni predefinite che influenzano le nostre azioni. Rivela come molte delle nostre reazioni siano radicate in opinioni culturali spesso ignorate. Invita a esplorare l’atteggiamento culturale di “fare” e sostiene la pratica della meditazione seduta come strumento per prendere consapevolezza del momento presente senza giudicare o cercare di cambiare. Presenta la vita di pratica come il riconoscimento e l’accettazione di ciò che si presenta senza resistenza. L’autore condivide un episodio personale che illustra il cambiamento di prospettiva attraverso il porsi di domande sull’esperienza attuale anziché combatterla. L’articolo poi si collega all’approccio olistico del narratore, che discute l’importanza della meditazione nella vita quotidiana e riflette sull’allineamento tra filosofie orientali e occidentali, raccomandando la lettura del libro come guida verso una maggiore comprensione della vita e dell’autenticità.

Un estratto del libro.

“Il potere del condizionamento culturale mi è balzato agli occhi di recente, quando mi hanno raccontato la storiella di un uomo e di suo figlio, entrambi coinvolti in un incidente d’auto. L’uomo era morto e il figlio era stato trasportato all’ospedale. Il chirurgo, entrando in sala operatoria, aveva esclamato: “Non posso operare questo ragazzo. È mio figlio”.
La persona che mi aveva raccontato la storiella mi domandò: “Chi è il chirurgo?”. Sulle prime pensai fosse un koan. Non sapevo proprio come rispondere. Ma la risposta era semplice: il chirurgo era la madre del ragazzo. La risposta più ovvia non mi era neppure venuta in mente. Benché non creda di avere consapevolmente alcun pregiudizio contro le donne, nel presupporre che il chirurgo fosse un uomo era palese la forza del condizionamento culturale. Questo mi fece capire come molte delle nostre azioni si fondano su percezioni culturalmente condizionate, e di cui forse non siamo minimamente
consapevoli. Quanta parte di quel che facciamo deriva da questo condizionamento per lo più ignorato? Nella vita della pratica c’è uno specifico atteggiamento culturale
che può arrecare più danno di qualsiasi altro: l’opinione inveterata che si debba fare. Siamo culturalmente condizionati a credere che essere attivi, produttivi, sia un fatto positivo. Siamo stati programmati per presupporre che la via per la felicità sia seguire la compulsione interiore a cambiare e adattarci. L’impressione che si possa fare qualcosa per migliorare la situazione è una caratteristica ben fissata nel nostro surrogato di vita.
Il contenuto fondamentale della meditazione seduta, poco importa cosa vi apportiamo o come ci sentiamo, è semplicemente stare seduti e lasciar essere. Ci sediamo, prendiamo coscienza di ciò che sta accadendo nel corpo e nella mente, ne sperimentiamo le caratteristiche che, e poi lasciamo semplicemente essere.
Possiamo utilizzare la domanda: “Che cosa sta accadendo proprio ora?” per prendere coscienza dello stato mentale, di quello fisico e degli stimoli sensoriali che provengono dall’ambiente. A mo’ di esperimento, domandatevelo adesso, in questo istante: “Cosa sta accadendo in questo momento?”. Prendete nota dello stato mentale, È preso
dai pensieri? Confuso? Calmo? Turbato? Limitatevi a prenderne nota. Prendete anche nota delle condizioni fisiche. Il corpo è stanco? Rilassato? Dolorante? Tranquillo? Anche in questo caso, prendetene semplicemente coscienza. Adesso fate attenzione agli stimoli che provengono dall’ambiente: la temperatura della stanza, le ombre, i suoni.
Non dovete far nulla, solo prenderne coscienza.
Quando prendiamo coscienza delle caratteristiche del momento, siamo raramente disposti a sperimentarle così come sono. Siamo propensi a considerare un aspetto o l’altro come un problema da risolvere o un ostacolo da superare. Ciò perché crediamo ai giudizi e
alle opinioni che formiamo su qualsiasi cosa che accada.
Per esempio, se mentre meditiamo siamo annoiati o assonnati, di solito la giudichiamo una seduta mal riuscita. Se ci sentiamo agitati o turbati, pensiamo di doverci calmare. Quando ci sentiamo confusi, aneliamo probabilmente alla chiarezza. Ma la nostra pratica consiste semplicemente nel ricordare che, qualsiasi cosa accada, non va considerata un ostacolo o un nemico, qualcosa da sistemare, da cambiare o di cui sbarazzarsi. Dal punto di vista della pratica, tutto, qualsiasi cosa sia, è il nostro sentiero.
Dobbiamo solo porci la domanda: “Che cos’è questo?”. La risposta non va cercata nell’analisi intellettuale, ma sempre nell’esperienza fisica del momento stesso. Non ci sono parole che possano mai cogliere il ‘che cos’è’ dell’esperienza viscerale del momento presente.
Eppure, nel fare esperienza della sua qualità unica e sempre mutevole in modo non concettuale, troviamo una soddisfazione che è impossibile provare in una vita basata principalmente sull’ottenere, sul fare, sul sistemare.
Pertanto la pratica è lasciare semplicemente essere la vita. Non è passività o pseudo distacco. Abbiamo sempre bisogno della disciplina del rimanere presenti, immobili formiamo su qualunque cosa accada. La disciplina consiste nello scegliere in ogni momento di non divagare, di essere precisi nell’etichettare i pensieri e nell’autosservazione. Si può praticare in questo modo sia sul cuscino di meditazione sia nel resto della vita. La mente aperta, disposta a osservare qualsiasi cosa si presenti, la mente che desidera semplicemente conoscere, essere li, dimorare nella realtà del momento, è sempre alla nostra portata.

Affannarsi, come quando cerchiamo di modificare un’esperienza o di sbarazzarcene, che sia nella pratica meditativa o nel resto della vita, è sempre una scelta. Anche la ‘sofferenza’ è una scelta. Puờ darsi che ciò sia difficile da ammettere, soprattutto se siamo dipendenti dalla nostra sofferenza. Ma non c’è alcun bisogno di soffrire la sofferenza! Possiamo limitarci a osservarla, a sperimentarla per ciò che è e lasciarla andare.
Immaginate, per esempio, di essere colti da un dolore o da un disagio fisico. Di solito al dolore fanno seguito pensieri quali: “Che ne sarà di me?”, oppure “Non riesco a credere che mi stia capitando una cosa del genere”. Non appena ci lasciamo agganciare da questi pensieri e vi prestiamo fede, ha inizio la sofferenza. L’esperienza fisica del disagio viene ricoperta da uno strato di sofferenza emotiva. Di fatto, tali convinzioni radicate in genere intensificano e consolidano il disagio fisico. Invece possiamo scegliere di osservare ed etichettare i pensieri e lasciare che l’esperienza semplicemente sia. Che ne è del
dolore? Forse, per saperlo, dovreste provare.

Diversi anni fa, durante una malattia cronica, dovetti sottopormi settimanalmente a un esame del sangue. A causa di un condizionamento che risaliva all’infanzia, nutrivo una forte avversione nei confronti dei prelievi di sangue. Spesso mi veniva il capogiro, e talvolta arrivavo al punto di svenire. La mia avversione non era motivata dalla paura del dolore, era solo un particolare effetto secondario del mio condizionamento. Il fatto che ne fossi consapevole non era sufficiente. Continuavo a presentarmi nell’ambulatorio per i prelievi carico di ansia. Per tentare di superarla, provai tutte le pratiche zen
che avevo imparato negli anni. Per esempio, mi presentavo al prelievo concentrandomi interamente sul respiro. Continuavo però a svenire. Pronunciavo brevi mantra sulla spaziosità, sul rimanere seduto come una montagna, ma non cambiava nulla. Praticare in questo modo per combattere quella che percepivo come una mia debolezza può addirittura aver peggiorato le cose. Giudicandomi un ‘debole’, davo ancora più potere alla mia reazione condizionata.
Ma un giorno, mentre mi recavo in automobile all’ambulatorio mi ricordai della pratica che avevo appena imparato: porsi la domanda “Che cos’è questo?” per ogni situazione che si presenta. Dal momento in cui mi accomodai sulla sedia per farmi prelevare il sangue
mantenni la concentrazione su quella domanda, con l’intenzione di fare esperienza delle caratteristiche del presente. Quando iniziò a venirmi il capogiro, invece dell’ansia e del timore di ne, provai l’eccitazione della curiosità. Avrei scoperto com’è realmente svenire! Tuttavia non svenni. Il capogiro passò e rimasi seduto del tutto a mio agio. Abbandonata la lotta, non solo sparì l’inutile sofferenza, ma si trasformò anche l’esperienza fisica. Tenete presente che non avevo fatto ricorso a quella pratica per evitare la sensazione spiacevole dello svenimento. Spesso è così che alteriamo la prațica, come illustra il mio comportamento precedente. In quel caso, invece, la disponibilità a essere semplicemente con l’esperienza scollegò il circuito del condizionamento.
Non sto dicendo che si debba considerare il condizionamento una vuota illusione e che si debba fingere di lasciarlo andare. Non sarebbe reale. Ciò di cui parlo è una certa leggerezza del cuore che è possibile introdurre nell’esperienza. La spaziosità si manifesta quando non ne andiamo alla ricerca. Si manifesta quando cessiamo di prestar
fede ai giudizi, soprattutto a quelli spietati che pronunciamo su noi stessi. Quando smettiamo di opporre resistenza a ciò che è e, col tempo, impariamo la disponibilità a essere con ciò che è, potremo persino arrivare a goderci i nostri schemi ricorrenti, il nostro piccolo dramma umano, l’intero spettacolo transitorio.Se siamo ansiosi, la pratica consiste nell’udire i pensieri, avvertire l’ansia e lasciarla semplicemente essere. Se siamo stanchi o assonnati, la pratica consiste nell’avvertire fisicamente la sonnolenza e lasciarla essere.

(…) Quando smettiamo di opporre resistenza a ciò che è e, col tempo, impariamo la disponibilità a essere con ciò che è, potremo perfino arrivare a goderci i nostri schemi ricorrenti, il nostro piccolo dramma umano, l’intero spettacolo transitorio.

(…) Tutto ciò che abbiamo realmente bisogno di imparare è la disponibilità ad essere. Non siamo obbligati a fare, sistemare o a cambiare alcunchè.

(…) Arrendendoci al momento presente facciamo esperienza dell’equanimità della vita autentica. (…)

Tale arrendersi al momento è l’essenza della vita della pratica. Benchè sia tanto semplice, è tuttavia difficile da attuare in modo costante.

Perché?

Perché non siamo disposti a farlo. Non vogliamo vivere la vita così com’é. Vogliamo credere ai pensieri.


Ma la vita della pratica deve comprendere l’osservazione e il lavoro con la resistenza, vale a dire tutti gli innumerevoli sistemi con cui ostruiamo la nostra apertura (verso l’esterno, nota mia personale). Allora impareremo a fare ritorno, a essere semplicemente presenti, nel miglior modo possibile, a tutto ciò che la nostra vita è in questo momento.

– quello che avete letto è un estratto del capitolo “Lasciar Andare”, Essere Zen, Ezra Bayda. Maggiori informazioni nel mio Pensiero qui sotto.

Il Pensiero Olistico.

Una delle “pratiche” più consigliate all’interno del mio lavoro, oltre allo studio e all’esercizio fisico per mantenersi in forma, è sicuramente quello della meditazione.

Se ne parla dappertutto: in molti libri di medicina olistica, in molti corsi di massaggio, fra colleghi, e ovviamente, nei corsi e libri di meditazione. Ci sono inoltre anche molti santoni, insegnanti e Maestri che ci spiegano l’importanza di questo “atto”. Atto che viene studiato, con risultati sorprendenti per il nostro Benessere, dagli scienziati odierni.

Nel mio caso non mi son mai trovato bene con nessuna di queste tecniche. Ho provato la meditazione oshana, la meditazione con la preghiera di stampo orientale e altre. La realtà è che ho trovato queste tipologie di meditazioni molto lontane dalla nostra e dalla mia filosofia. Dopotutto, molte tipologie di pensiero sono lontane dalla nostra filosofia, quella occidentale.

Nel libro di Ezra Bayda, “Essere Zen”, ho trovato alcune delle risposte che cercavo, sia sull’atto di meditare che sulla vita. A differenza di altre metodiche, che secondo me portano la persona che si trova a meditare a “staccarsi dalla realtà”, l’Autore ci rende più vicini alla realtà, a come “sentire” quello che succede nella nostra Vita. Ci mette inoltre in guardia, fra le altre cose, a riconoscere tutti quei pensieri e castelli che ci creiamo, non facendoci vivere appieno la Nostra Vita (e non quella degli altri). È sicuramente una strada lunga, in cui non ci sono molte scorciatoie, quella che ci consiglia Ezra (cosa che vi posso assicurare, dal momento che sto cercando di mettere in pratica le sue parole). Ma se appunto il risultato sarà quello di riappropriarsi della propria Vita, non è forse una strada da seguire?

Consiglio a tutti la lettura di questo libro, anche perché, come viene detto dalla copertina: “Molti libri promettono di portare la pratica spirituale nella vita quotidiana. Questo ci dà gli strumenti per farlo”.

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